Massimo Chiti
Ogni gesto ha un’intenzionalita’ propria, una letteratura che recupera e fonde elementi disposti nella storia dell’arte e nella socita’ contemporanea.
Il patto semantico di Chiti con la realta’ sta proprio in questa azione di recupero in cui lo studio della materia nel gesto artistico gioca con le tecniche di composizione.
Ecco che il volto di Mao, nell’opera omonima, acquista una forza nuova, non ideologica, anzi, anti-ideologica, con l’intento, nell’atto di questa privazione, di “utilizzare” questo materiale visivo per quello che e’: un’immagine, un volto de-contestualizzato e ridotto a materia.
Si realizza quell’intento tipico dell’ambiente Pop di “prelevare” quel dato simbolico della cultura per farlo proprio con un linguaggio altro che, privato, come gia detto, della semantica originale, si attesta a essere motivo di forza del gioco anti-ideologico e controculturale.
Mao, personaggio storico, perde non la storicita’,quando, infatti, e’ riconoscibile, ma il significato originario; ne e’ privato per essere materiale dell’opera d’arte, del lavoro estetico di esposizione al pubblico di questo recupero stesso.
In un’altra opera, “Sembra facile”, assistiamo a questo stesso intervento di recupero, in questo caso di messaggi propri della pubblicita?.
Cosa recupera? Il significato massificato. Il senso della pubblicita’, che risiede nell’elevazione del bene di consumo e bene di possesso, cioe’ nella narrazione di un prodotto industriale come necessario quasi alla costruzione dell’dentita’ della persona e che agisce sulla struttura complessiva della cultura dominante.
Questo approdo, il significati diffuso, di massa, dell’oggetto pubblicizzato, e’ contrastato da questo atteggiamento di dissacrazione dello stesso significato imposto che e’ fatto proprio, depurato. Lo stesso atteggiamento produttivo industriale che punta alla serie infinita e’ scomposto nell’unicita’ che e’ l’opera d’arte.
Le tecniche di Chiti sono molteplici, segnale di questa ricerca storica, personale e culturale in cui troviamo dei riferimenti precisi, delle coordinate rese personalissime dall’azione del gesto artistico per cui il manifesto strappato, il de’collage di Mimmo Rotella, vive nel graffio, nella lacerazione e nella composizione, addizionando elementi nella materia. Una ricerca sull’essenza dell’opera, sul fare arte che svolge a partire dalla traduzione personale della materia come oggetto dell’azione dell’artista sul senso soprattutto di se stesso come artefice dell’opera e come umano generatore di significati.
Cosi’, nell’alterazione del materiale, pensato e plasmato sull’esigenza della ricerca, non possiamo non pensare ad Alberto Burri, alla tensione propria della lavorazione della materia che ha l’apice propria nei “Cretti” e nelle loro crepe che Chiti omaggia con l’uso di materiale come il gesso di Bologna gli stucchi, i cementi e le colle sulle tele di juta grezza.
Una mediazione sull’espressivita’ artistica che rende questa stessa ricerca unica, come testimonia un altro elemento proprio della composizione delle sue opere: la macchia di colore, una sorta di firma del proprio linguaggio compositivo.
Allora, Chiti fa questo, compie un viaggio, anche spirituale, nella storia dell’arte per approdare al linguaggio artistico stesso attraverso il recupero sapiente dello studio materico come per i colori, cosi che anche il livello cromatico riflette l’inquietudine della ricerca e si fa esso stesso corpo della materia, con accensioni e tocchi dati con senso e forma si non vicini alla realta’ visiva, ma coerenti in tutto con questa ricerca personale.
Giuseppe Maria Marrone
Massimo Chiti, New Pop o Ipertestualità?
Il lavoro visuale di Massimo Chiti si incentra su una continua riflessione intorno ai linguaggi comunicativi condivisi nella società contemporanea. Massimo vuol parlarci e quindi, preliminarmente, si appropria di una grammatica e di una sintassi idonea ad interfacciarsi con la moltitudine degli individui con cui quotidianamente si relaziona. Si allontana dalla condizione di intellettuale elitario e demiurgo, detentore di una consapevolezza superiore ed impegnato a guidare i suoi simili. Con il suo operare ridefinisce il ruolo dell’artista come portavoce e medium di una società, voce critica, ma comunque interprete di un sentire condiviso.
E se il linguaggio visivo, più ancora del parlato e dello scritto, è prioritario nel mondo globale del XXI secolo, è ovvio che si scelga, fra le infinite sperimentazioni consegnateci dei maestri della Modernità, quelle capaci di interloquire più diffusamente con strati diversificati di socialità. Massimo fa proprie molte delle sperimentazioni artistiche più recenti, ma sceglie un linguaggio con chiari riferimenti all’esperienza Pop, sia relativamente alle tecniche che ai soggetti. Riconoscere i propri padri è strumentale a fornire un approccio, a facilitare un avvicinamento. Ma niente più! Certo Massimo si concentra su volti e figure iconiche appartenenti al bagaglio condiviso dall’uomo medio occidentale, e su queste interviene con gli strumenti specifici dell’operatore visivo, come aveva già sperimentato Warhol. Ma le analogie finiscono qui. Non è più sufficiente denunciare l’aspetto misticante della società dei consumi, con la globalizzazione occorrono strumenti di analisi più sottili e ipotesi decostruttive e ricostruttive più complesse.
Se Warhol combina serigrafia e fotografia per proporci un modo tecnicamente “facile” di produrre e riprodurre immagini, se Mimmo Rotella, con i suoi “décollage” cerca di affermare tracce di un vissuto, Massimo costruisce, con la sua padronanza di tecniche e materiali della contemporaneità, mappe concettuali complesse per orientare la riflessione e suggerire ulteriori percorsi critici.
Nelle sue opere collage e décollage si uniscono a manipolazioni in fase di stampa e a interventi pittorici che ripropongono gli strumenti classici della composizione, e dell’equilibrio cromatico; niente è ready-made strappato alla banalità del quotidiano: anche quando ricicla tappi di bottiglia li manipola trasformandoli in tessere di mosaico, tappi, strasse e frammenti di cristalli portano al combine-painting, ma solo per rafforzare l’energia espressiva delle combinazioni di immagini. Riconosciamo subito il volto di David Bowie o di Sophia Loren, ma è il magma indistinto di frammenti iconografici che compongono(o scompongono?) tali immagini mitiche ad innescare un corto circuito che moltiplica le associazioni ed i richiami. Vari echi si intersecano e vanno a rendere ancora più polimorfa la natura dell’immagine, figure e oggetti, insieme e frammenti perdono la loro matrice originaria ed acquistano un’identità altra. La leggerezza impalpabile delle carte e dei colori stampati lascia il posto (o si combina) alla fisicità di materiali presi a prestito da ambiti diversi (il tappo di bottiglia, lo strasse, il cristallo), non tanto per conquistare una plasticità spaziale, quanto per costruire una dialettica tra realtà, apparenza e illusione.
Anche il trattamento con resina cristallizza il processo eliminando ogni possibile depauperamento futuro. Assistiamo al capovolgimento del processo che ci proponeva Rotella e cogliamo le specificità di Chiti: non ci limitiamo a estrapolare dalla vita vissuta frammenti carichi di pathos, ma costruiamo con pazienza una rete di associazioni d’idee (per immagini) capaci di reinterpretare la realtà e di suggerire ulteriori arricchimenti e trasformazioni.
Un modo per far riflettere sulla precarietà e sulla fragilità dell’essere umano e di tutte le cose, in un continuo fluire dove anche i contrari si dissolvono l’uno nell’altro. Le forme, apparentemente riconoscibili come icone condivise, si frantumano e si ricompongono, si lacerano e ricostruiscono temporanei equilibri e ne creano di nuovi, polimorfi, inusitati e inaspettati, mentre il ghigno si trasforma in sorriso, la sofferenza in gioia, la serietà in gioco ammiccante.
La memoria è sempre più forte della percezione retinica e quest’ultima serve ad attivare la prima.
E allora potremmo lasciarci attirare dai miti popolari che Massimo Chiti ci propone ma poi guardare i suoi lavori come tavole da meditazione dove ricercare ossimori e palindromi per costruire ulteriori connessioni di senso del tutto personali.
Roberto Agnoletti